Non c'è giorno che qualcuno non mi chieda di Gioia e Kelly, se scriverò ancora dei Kellyni. Mai dire mai, anche se in agenda ho tantissimi nuovi progetti.
Il mio 2019 ha contato zero pubblicazioni, perciò per farmi perdonare ho pensato di raccontarvi il primo incontro tra Gioia e Kelly dal pov di Christian. Scopriremo le reazioni e le emozioni di Mister Copertina alla vista del SUO URAGANO.
Grazie per la pazienza e il supporto che mi date tutti i giorni, vi auguro di passare buone feste e che il 2020 vi porti salute, serenità e tanti bei manzi librosi (i fidanzati di carta non sono mai troppi!!!).
Christian Kelly, ancora l’indiscusso re delle notti newyorchesi.
Non smettono gli avvistamenti notturni del giovane magnate e proprietario della Sound&K dopo la dolorosa rottura del suo fidanzamento con la modella ed ereditiera Chantal Herrera.
Lo abbiamo beccato mentre lasciava il lussuoso hotel Mandarin della città, dopo esserne entrato qualche ora prima con un angelo di Victoria’s Secret.
Amiche single di New York, quando sarà pronto il nostro sexy rampollo a mettere la testa a posto?
Lanciai il giornale sul sedile della berlina, mentre Pedro si destreggiava nel traffico congestionato di New York.
Non era la prima volta che la mia faccia veniva ‘schiaffata’ in prima pagina nella rubrica di gossip di qualche rivista scandalistica. Dopo la fine della mia storia con Chantal, mi sono comportato da gran figlio di puttana. Collezionavo donne come sfere con la neve solo per appagare i miei puri istinti sessuali.
Nessun coinvolgimento.
Nessuna replica.
E assolutamente nessuna promessa, così da evitare l’etichetta da ‘è Quello Giusto’.
Il mio fidanzamento con Chantal era finito in maniera disastrosa e inaspettata. Avevo progettato da settimane la mia proposta di matrimonio: avevo prenotato un ristorante stellato, riservato una saletta con vista skyline solo per noi due. Sembrava una tipica scena da film di Hallmark: cena a lume di candela, violini in sottofondo, la città più magica del mondo a fare da cornice.
Mi era sembrato naturale chiederle di diventare mia moglie. Nonostante l’infanzia infelice e il fatto di esser cresciuto con un padre inesistente che tradiva mia madre, avevo sempre sognato di costruirmi una famiglia e di essere un giorno quel padre che mi era sempre mancato.
Invece quella che doveva essere una sorpresa si era trasformata in un colpo di scena inaspettato nella scenografia della mia vita.
Avevo raggiunto Chantal, che si trovava a Miami per una sfilata, senza avvisarla e l’avevo trovata a letto con un altro.
Ora ero diventato l’immagine sputata di mio padre: usavo le donne per lenire il mio dolore e poi le congedavo ‘gentilmente’ il giorno dopo con una telefonata della mia segretaria.
Mi sentivo un schifo e mi svegliavo ancora peggio, una merda.
Chantal possedeva alcune quote dell’azienda, mi stavo abituando a vederla tutti i giorni per i corridoi della Sound&K e a lavorarci assieme. L’odio e la rabbia si stavano trasformando in indifferenza, anche perché era importante per gli affari trovare un modo di stare nella stessa stanza senza scannarci. Lei continuava a insistere che si era trattato di un errore, che mi amava.
A volte pensavo che potessimo funzionare ancora, che potessimo riprovarci. Poi nella mia mente riprendeva vita sempre il solito film: il suo corpo aggrovigliato a quello di un altro uomo in un letto king size in Florida.
Il dolore era stato devastante. Non sapevo se sarei riuscito a sopportare di nuovo tutta quella merda.
La mia priorità, ora, erano gli affari.
Nient’altro.
Avevo chiuso con le donne.
Una storia d’amore era l’ultima cosa che volevo in quel momento della mia vita.
“Signore.”
La voce del mio autista mi risvegliò dai miei pensieri. “Sì, Pedro?”
“Ci deve essere un incidente sulla Park Avenue. Arriveremo un po’ in ritardo in aeroporto.”
Controllai l’ora. Il traffico era a un punto morto e avevo un volo per Venezia da lì a quattro ore. “Scendo qui.”
“E come farà con la valigia?”
“Ho solo un bagaglio a mano. Esco da questa zona e chiamo un Uber.”
Recuperai i miei effetti, salutai Pedro e mi incamminai verso la Lexington Avenue, inspirando a pieni polmoni l’aria di Manhattan.
Ero contento di lasciare la città per alcuni giorni. Avrei lavorato a una nuova campagna aziendale con l’agenzia pubblicitaria italiana di mia zia, dopo aver trascorso un weekend con alcuni pezzi grossi della Sound&K a Barcellona.
New York iniziava a starmi stretta tra Chantal, gli affari e le copertine di gossip. Provavo odio e amore in egual misura; stare fuori dalle scatole mi avrebbe rinvigorito, avrei ripreso in mano le redini della mia vita.
Basta eccessi.
Basta notti brave.
Basta stronzate.
Era arrivato il momento di tornare a essere il Christian Kelly che faceva il culo agli avversari nel mondo discografico.
Qualche giorno più tardi, giravo per i corridoi del Marco Polo di Venezia, con il profumo delle brioches appena sfornate e del caffè macinato. I passeggeri erano in fila ai bar per fare colazione, io mi infilai le cuffie alle orecchie e mi estraniai dal mondo. Non che avessi paura di volare, ma la musica mi aiutava a rilassarmi. Soffrivo ancora di jet lag e mi aspettava una nottata per locali nella movida di Barcellona.
Mi sedetti in una caffetteria all’interno dell’aeroporto e ordinai un vero espresso, e intanto controllavo sul telefonino le email in entrata e alcune bozze di idee che mi aveva inviato mia zia dalla Dreamsart. A New York c’erano un’infinità di agenzie pubblicitarie, ma sapevo che l’azienda di mia zia non navigava in ottime acque. Firmare un contratto con la Sound&K avrebbe ridato ai conti un po’ di sollievo e forse la spinta giusta per decollare con un nome altisonante come il nostro.
Avevo ereditato la casa discografica alla morte di mio padre. Mia sorella Candice mi aveva di grazia lasciato un bel carico da novanta sulle spalle, ma a quasi trent’anni ero uno degli uomini più influenti della finanza statunitense e, oltre alla sede centrale, contavo filiali a Londra e Milano.
Con l’iPod spento, presi a leggere un libro che avevo comprato per ammazzare il tempo, quando una ragazza di bell’aspetto, qualche tavolo più in là, gridò: “Da quanto tempo non vai a letto con un uomo?”
Attirò l’attenzione di tutto il bar.
La povera malcapitata a cui era diretta la frase era la sua amica, uno scricciolo biondo che stava scivolando in basso sulla sedia. Credevo volesse scavare una fossa lì e nascondersi.
Era arrossita (chi arrossiva ancora, al giorno d’oggi?) e si sventolava col menu per farsi aria. Si guardò attorno, guardinga, e io finsi di essere preso dalla storia del romanzo, anche se la conversazione fra le due era molto più interessante.
Non che l’amica facesse qualcosa per non rendere tutto l’aeroporto partecipe, parlando con un tono di voce superiore ai decibel consentiti a quell’ora del mattino.
“Basta castità, da oggi la tua parola d’ordine sarà divertimento. Te lo ordino da tua life coach di fiducia. Gli uomini non vogliono una ragazza che dopo il primo appuntamento immagina un solitario al dito, la marcia nuziale in sottofondo e un passeggino parcheggiato in garage. Devi essere un po’ più… Generosa, cazzo!”
Non aveva tutti i torti.
“Generosa?”
“Generosa. Non dico che devi dargliela al primo appuntamento, perderebbe l’entusiasmo. Fagliela sudare ma non troppo, altrimenti ti servirà una bella iniezione di botox laggiù a forza di aspettare.”
Trattenni un sorriso per non peggiorare l’imbarazzo della biondina e mi alzai per andare al gate. Mi stavo dirigendo verso le scale mobili quando i nostri sguardi si incrociarono. Due occhi luminosi mi trovarono e mi bloccai di colpo, una scossa inaspettata mi attraversò il corpo. Per una frazione di tempo ebbi la sensazione che quello scricciolo vestito di nero dalla testa ai piedi potesse leggermi dentro.
Mi sentii inspiegabilmente esposto.
Vulnerabile.
Così inforcai gli occhiali da sole e me ne andai via da lì, stranamente turbato. Smanettavo sul cellulare, con gli aerei che si preparavano a lasciare la pista al di là delle vetrate. Entrai in edicola per restare aggiornato sui titoli in calo e in ascesa delle borse, quando mi arrivò un SMS sarcastico da Thomas Brooks, il mio migliore amico nonché braccio destro alla Sound&K, che mi rammentava cosa mi aspettasse una volta messo piede a Barcellona.
STASERA. CARICO. SANGRIA. DONNE.
Considerando che avevo dormito solo un paio d’ore per il fuso orario, che con le donne avevo chiuso per sempre e che i drink sarebbero stati a carico dell’azienda, cioè sul mio nota spese, in quel momento volare in Spagna non era in cima alla lista dei miei desideri.
Mi voltai e stavo per rispondere quando alzai la testa e mi accorsi che qualcosa di piccolo e biondo mi stava per finire addosso con la forza di un uragano.
Alzai il sopracciglio e squadrai lentamente dal basso verso l’alto lo scricciolo che mi aveva investito.
Quello scricciolo biondo.
Le sopracciglia aggrottate si spianarono sul mio volto, e la confusione lasciò il posto a un sorriso divertito.
Lei si raddrizzò di scatto senza smettere di fissarmi imbambolata con quei suoi occhioni verdi e innocenti.
Padrone di me stesso, la studiai: minuta, capelli color biondo sporco, viso angelico con poco trucco. Era completamente nascosta dai vestiti che non rivelavano alcuna curva. Mi aveva fissato con la bocca spalancata, tra lo shock e il piacere, e io ero abituato a lasciare le donne senza parole.
Era ben lontana dalle solite donne che meritavano la mia attenzione, eppure c’era qualcosa in lei che mi attirava come una calamita. Forse si trattava della sua timidezza che la portava a posare gli occhi ovunque tranne che su di me, o della sua goffaggine. Sembrava un cartone animato vivente.
Aveva il respiro pesante e si morse il labbro, nervosa. Quel gesto servì solo a catturare ulteriormente la mia attenzione.
Ha delle labbra fantastiche!
Non guardarle, hai chiuso con le donne, Kelly!
Ci fissammo per lunghi secondi, nessuno dei due si mosse. Ero tentato di sparare una battuta delle mie solo per vedere il rossore farsi strada sui suoi tratti, ma lei se ne uscì con un goffo “ops!” prima di girare sui tacchi e nascondersi nel reparto souvenir.
Era letteralmente corsa via, con i capelli che svolazzavano e la borsa che ballonzolava contro il fianco.
Cosa cavolo era successo?
Il mio ego accusò il colpo; di solito ero io a fuggire, non il contrario.
Avevo perso il mio tocco magico.
Un altro sorriso mi piegò la bocca.
Che tipino, pensai, scuotendo la testa. Pagai alla cassa e mi diressi al gate, scosso da quell’incontro. La lasciai lì, anche se due occhi verdi mi inseguirono per tutto il volo fino a El Prat.
“Quello mi fa venire il latte alle ginocchia” disse Thomas, guardando il tipo che cantava Mariah Carey sul palco del Touch Music, un karaoke a pochi passi dal quartiere gotico della città catalana.
“Io ho visto qualcosa di molto meglio” parlò Nathaniel, indicando un angolo del locale.
Seguii il suo sguardo e vidi una prorompente bionda che beveva e squadrava sfacciatamente il mio amico. Affinai lo sguardo, aveva un viso familiare.
“Non lo rivedremo più fino a domani mattina” aggiunse Thomas, divertito. Mi diede una pacca sulla schiena. “Vieni lì con noi?”
Mi appoggiai al bancone del bar, una mano infilata nella tasca del completo, l’altra che teneva stretto il cellulare. “Tu vai, io ti raggiungo fra un po’.”
“Cos’hai, amico? È tutta la sera che sei taciturno.”
Scrollai le spalle. “Sarà colpa del jet lag.”
Thomas bevve un lungo sorso di whiskey, assaporando con calma il liquore prima di parlarmi. “Balle, Chris. Ci sono passato anch’io e so come ci si sente. Ma questa sera non pensare a Chantal.”
“Non stavo pensando a Chantal. E che vuol dire che ci sei passato anche tu?”
“Notti brave, drink, donne diverse come valvola di sfogo. Non ti giudico.”
Gli rivolsi un debole sorriso. “Giuro, Chantal non mi ha nemmeno sfiorato la testa. Forse sono arrivato a un punto della mia vita in cui voglio di più, in cui non mi accontento più di una vita insonorizzata.”
“Allora vieni di là con noi.” Lanciammo uno sguardo all’area vip che avevamo riservato per la serata. Un collega stava allineando una serie di bicchierini da shot sul tavolino.
Gli mostrai lo smartphone. “Chiamo l’ufficio e vi raggiungo.” Lo sguardo di Thomas si rabbuiò. “Smettila di preoccuparti. Vai a dare fondo alla mia carta aziendale, io arrivo.”
Uscii per chiamare la mia segretaria e farmi ragguagliare sulle ultime novità. Avevo posticipato il rientro di alcuni giorni, perché c’era una band italiana che volevo sentire dal vivo prima di tornare a casa e così avevo mosso mari e monti affinché non ci fossero intoppi in mia assenza.
Chiusa la telefonata, tornai dentro per unirmi alla compagnia e fu allora che la mia attenzione fu calamitata da una donna che stava impugnando il cellulare come se avesse in mano il Sacro Graal.
Lo scricciolo dell’aeroporto?
Cavolo, sì. Era proprio lei.
Era scalza, con uno striminzito vestito di pizzo nero che lasciava ben poco all’immaginazione o, se non altro, la faceva lavorare alacremente. La fasciava come una seconda pelle, facendole risaltare le curve e le linee perfette del corpo. Con le scarpe strette sotto il braccio, barcollava da una parte all’altra della stanza come una pazza affetta da disturbi. Una pazza ma con un gran didietro.
Non guardava dove metteva i piedi, tanto era intenta a puntare lo smartphone verso il soffitto come la spada laser di Luke Skywalker.
Sulle note degli Abba si faceva largo tra qualche avventore, come se da quell’arnese che teneva fra le mani dipendesse la sua stessa vita. Pazza, Timida e Svitata stava venendo nella mia direzione; aprii bocca per farle notare la mia presenza ma la collisione era ormai inevitabile.
Il corpicino minuto sbatté contro il mio completo Armani.
“Scusi” farfugliò, gli occhi concentrati sullo schermo.
“Ce l’hai con me?” esordii per attirare la sua attenzione. Avevo chiuso con le donne, okay, ma qualcosa dentro di me premeva per rivolgerle la parola, per riavere quelle iridi verdi come la brughiera in primavera di nuovo addosso.
Iridi verdi come la brughiera in primavera? Ma da dove mi era uscito?
Mi stampai sulle labbra il mio sorriso da rimorchio, aspettando che mi notasse.
La ragazza alzò lo sguardo e si irrigidì di colpo. Mollò scarpe e borsa a terra, rovesciandone il contenuto per terra. Mi fissava ammutolita, con il respiro pesante. Sembrava impaurita.
Non esattamente l’effetto che speravo di avere.
“Ehi, tutto bene?” chiesi, leggermente preoccupato.
Al suono della mia voce, barcollò e io mi allungai per afferrarla per la vita, impedendole di cadere a terra. Per quel giorno aveva già dato, in quanto a figuracce.
Il suo corpo premeva contro il mio, poca stoffa ci separava. Ero consapevole delle sue curve, del suo petto che saliva contro il mio.
Okay, forse adesso uno di quegli shottini mi sarebbe servito a mo’ di doccia fredda.
“Tutto bene?” ritentai a voce bassa, cercando di eludere il sorriso che mi stava sbocciando davanti alla sua espressione imbambolata.
Sentii il suo sguardo scivolarmi addosso e squadrarmi con bramosia il completo di alta sartoria, la camicia bianca che faceva risaltare la mia abbronzatura. Poi l’uragano prese un profondo respiro, come se le costasse fatica stare in mia presenza.
Un altro pugno al mio ego.
Da vicino dovevo ridefinire la mia valutazione su di lei. ‘Carina’ era riduttivo. Gli occhi erano grandi e limpidi, aveva una spruzzata di lentiggini sul naso, le labbra piene potevano ridurre gli uomini in ginocchio e mi chiesi come fosse morderle, sentirle pronunciare il mio…
“Scusa…” balbettò e si districò dalla mia stretta. Scivolò via dalle mie mani che sembravano fossero state create apposta per stringermela addosso.
Si inginocchiò a recuperare da terra i trucchi disseminati sul pavimento. “È la tua giornata fortunata” scherzò, le guance che le si coloravano di un rossore adorabile. “Due volte in poche ore.”
Avrei potuto congedarmi, andarmene nell’area vip e chiuderla lì. Invece sentivo un’urgenza, il bisogno di avere uno scricciolo pazzo e timido nella mia vita anche se solo per pochi minuti.
Sganciai il mio famoso sorriso da pubbliche relazioni e mi chinai a raccogliere le cose che le si erano sparpagliate per terra, mordendomi il labbro per non scoppiare a ridere davanti alla sua espressione imbarazzata mentre le porgevo un assorbente. “Puoi dirlo forte.”
“Grazie” disse, sistemandosi una ciocca di capelli che le era finita sul viso.
Il mio sorriso si allargò nella speranza di farne nascere uno sulle sue labbra perfette. Ma lei distolse lo sguardo e si appoggiò al bancone per infilarsi le scarpe.
Gliele presi di mano e l’aiutai. “Aspetta, ti aiuto. Avete tutta la mia ammirazione per il fatto che sopportate questa tortura dei tacchi.” Pronunciai quelle parole cercando di evitare i pensieri che avevano preso forma nella mia mente al contatto delle mie dita sulla sua pelle. Le sfiorai la caviglia, la pelle morbida e liscia. Dovetti mantenere il controllo.
L’uragano di un metro e sessanta abbassò gli occhi e i nostri sguardi si catturarono per un breve intenso istante. “Chissà perché mi sembri un uomo a cui piacciono le donne con i tacchi.”
Wow, mi rivolse un’occhiata di fuoco tanto che temetti per le mie palle.
Le infilai l’altra scarpa e mi rialzai, sistemando l’orlo dei pantaloni. Mi appoggiai al bancone del locale, curioso di sentirne di più. “Ah, sì? Che uomo ti sembro?” la sfidai.
Un boato si frappose fra di noi. Ci voltammo: le sue amiche erano sul palco e intrattenevano tutto il bar.
“Come tutti gli uomini. Appena vedete due tette strizzate in un push-up, un vestito inguinale e due gambe affusolate grazie ai tacchi avete il cervello in pappa. Anche se dubito usiate quello, in quei casi.» Mi indicò ignara i miei colleghi ingabbiati nei loro completi costosi che stavano effettivamente sbavando sotto il palco per la sua amica. “Guarda quei morti di fame laggiù.”
Era una contraddizione continua: timida e permalosa. Arguta e indubbiamente sexy.
“Interessante. Sono impressionato dall’elevata considerazione che hai del sesso maschile, sei crudele.» Mi portai una mano al cuore come se mi avesse ferito a morte. “Quindi sbaverei per una come quella?”
Ero in ansia per le mie palle perché una ginocchiata ci stava tutta. Stavo indicando la ragazza al centro del palco, la life coach dell’aeroporto.
L'uragano in pizzo nero alzò il mento, punta nel vivo. "Il fatto che una donna entri in un locale da sola non significa che la voglia dare via e non sempre l'abito fa il monaco, Mister Impettito!"
“Io sarei impettito? Chi è che si veste come un mormone in lutto costante?” Squadrai ogni centimetro di pelle lasciato scoperto dal vestito. Lentamente. Gli occhi accesi di desiderio. “Tranne stasera” mormorai con voceroca.
Vari stati d’animo si alternarono su quel viso angelico.
Sorpresa.
Confusione.
Orrore. “Come?”
Sì, tesoro. Ho sentito tutta la conversazione.
Bevvi un sorso di birra e mi appoggiai pigramente al bancone. “Credi davvero a quelle stronzate? Che ci bastino un reggiseno di una taglia più piccola e un corpo in bella mostra? Girare mezze nude non aiuta la nostraimmaginazione e la tua amica ne è la prova: c’è ben poco da fantasticare quando il pacco dono è tutto scartato.”
Forse dovevo cambiare programmi per il mio futuro e cancellare dalla lista la voce figli, perché ero sicuro che ci mancasse poco a un calcio ai gioielli di famiglia.
“Sai che non si ascoltano le conversazioni altrui?”
“Era impossibile non sentire.”
“Non avevi la musica accesa?”
“E tu lo sai che non si fissano le persone?”
Ci sfidammo con gli sguardi, Occhi Cioccolato Fondente contro OcchiVerdi.
Dio, quando si arrabbiava era ancora più bella.
Okay, Kelly, smettila con le stronzate e sbronzati!
“Ehi, capo.” Nathaniel era in piedi su una sedia vicino al palco e si sbracciava per attirare la mia attenzione. Sbiascicava e barcollava. Era ubriaco. “Vieni? Non sai cosa ti perdi.”
“Scusa?” Portai l’attenzione sull’uragano. “Forse tu mi puoi presentare un vero uomo?”
Le rivolsi un sorriso divertito. Un altro. A fine serata avrei avuto una paresi. “Touché!” Le porsi la mano. “Sono Christian, amico dei morti di fame.”
Lei abbozzò un sorriso e dopo tanto tempo sentii qualcosa premere all’altezza del costato, proprio vicino al cuore. Prese la mia mano e per un attimo ebbi la sensazione che i secondi si fossero cristallizzati. “Gioia, amica di quella.”
Nessuno dei due abbassò gli occhi, finché non arrivò la barista. “Cosa vi porto?” Era più interessata a me che alle nostre consumazioni.
“Un electric per me” ordinai. “E per te?”
“Uno anche per me, grazie.”
Mi appoggiai con il fianco contro il bancone, mentre arrivavano i nostri cocktail. “Allora,come mai sei in un karaoke di Barcellona alle due di notte?”
“Vacanza” rispose, sorseggiando lentamente il drink. Si passò la lingua sul labbro inferiore e quella volta i battiti tornarono, ma sotto la cinta. “E di che cosa ti occupi, tu, da essere per lavoro in un karaoke di Barcellona alle due di notte?”
Aveva grinta, il tipino. Scoppiai a ridere. “Musica. Lavoro in una casa discografica” aggiunsi, giocando con la cannuccia.
“Siete a caccia di nuovi talenti? In un karaoke?”
“Diciamo che il karaoke pullula di personaggi interessanti.” Chinai la testa e sillabai con voce roca ogni sillaba. “Canori enon.”
Gioia era in imbarazzo. Bevve un lungo sorso di electric e distolse gli occhi dai miei. “Avete trovato il prossimo cantante dai dischi d’oro?”
“La tua amica non è male” la stuzzicai solo per vedere le guance colorarsi di rosso. Ottenni come risposta una fulminata che me lo fece solo venire più duro. “Bisogna lavorare un po’ sull’intonazione, a quanto pare come presenza scenica ottiene già un ottimo consenso.”
Bevvi gli ultimi sorsi del liquido blu per tenere la bocca occupata.
Gioia mi diede le spalle. In quel momento compresi l’espressione “sentirsi addosso una persona” perché provai un vuoto inspiegabile.
Stupido.
Inopportuno.
Mi avvicinai di un passo e, quando si voltò, chinai la testa e le sfiorai con le labbra la curva dell’orecchio. “Gioia...” sussurrai. Se si fosse voltata anche solo di mezzo centimetro avrei avuto le sue labbra sulle mie. “Sto scherzando” dissi, mettendo spazio fra di noi.
I suoi occhi ritrovarono i miei, alzando notevolmente le temperature della stanza. L’aria era carica di tensione.
Fu un beep dal suo cellulare a spezzare l’incantesimo.
Gioia si irrigidì, mollò la presa dal bicchiere per riprendere il cellulare. Lo agitò in tutte le direzioni. Avevo di fronte la versione Pazza e Svitata.
Alzai un sopracciglio, curioso. “Tutto bene?”
Le guance le presero fuoco. “Devo inviare assolutamente un'email e non ho campo. Per di più sono nell'unico locale di tutta Barcellona senza Wi-Fi. E sì, devo inviarla a quest'ora perché tu non conosci Sabrina Kent, la Regina dei Ghiacci o anche soprannominata dalla sottoscritta Madame Rottweiler. Ha la fissa, una delle tante, che vuole tutti i progetti consegnati entro le cinque del pomeriggio del venerdì. Oggi dovevo inviare la documentazione sull'ultima campagna pubblicitaria per la Sound e qualcosa, e, credimi, ero convinta di averla inviata. Invece no, questa fottuta e-mail è ancora qui in bozza e non vuole saperne di uscire da questo dannatissimo cellulare.» Finalmente prese fiato. “Posso considerarmi licenziata, tanto vale che cancelli il viaggio di ritorno e rimanga qui a Barceloneta a vendere lattine in spiaggia."
In quella valanga di parole captai solo Sabrina Kent, Rottweiler e Sound e qualcosa.
Quante possibilità c’erano che Gioia lavorasse per mia zia e nello specifico per la campagna pubblicitaria della Sound&K?
Merda.
Calma, Kelly.
Ragiona.
Le opzioni erano due: dirle tutta la verità, farla sprofondare dalla vergogna e vederla fuggire via. Oppure mentire, omettere il mio cognome, il mio grado di parentela con la ‘Rottweiler’ e aiutarla.
Decisi per la seconda. Anche se una volta scoperta la mia vera identità si sarebbe avverata la prima opzione.
“Calmati.” La presi per le spalle. “Respira.”
Quando incontrai i suoi occhioni verdi e gli angoli della sua bocca si alzarono leggermente all’insù, capii di aver preso la decisione giusta.
“Sembra un inferno” mormorai. “Così devi inviare quanto prima quella e-mail aMadame...?”
Dio, se l’azienda falliva potevo provare con Broadway.
“Rottweiler”sospirò, le spalle incurvate. “Quella donna sbrana chiunque trovi sulla sua strada. Ha un iceberg al posto del cuore” disse,sprezzante.
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
Stava piangendo.
Fu come ricevere un calcio nello stomaco.
Sembrava ancora più minuta, indifesa… persa.
"Ehi, va tutto bene" la rassicurai, togliendole il bicchiere vuoto dalle mani e porgendole un tovagliolo di carta preso dal banco.
“Scusami” piagnucolò, tamponandosi gli occhi. “Non so cosa mi sia preso.”
“Di solito faccio piangere le donne quando le scarico dopo il primo appuntamento, non la sera stessa.” Un sorrisetto divertito mi spuntò agli angoli della bocca.
“Il nostro non è un appuntamento” mi fece notare, cercando di togliersi il mascara colato sotto gli occhi.
Stava piangendo per la mia campagna pubblicitaria. Mi sarei dato una cazzottata da solo.
Mi alzai e parlai con un ragazzo dietro il banco, poco dopo tornai da lei con il mio portatile.
“Allora, uragano, vogliamo o no mandare questa e-mail?” la rassicurai, anche se dovetti farmi violenza per non allungare le braccia e stringermela al petto.
Mi misi alle sue spalle, intrappolandola tra me e il bancone. Smanettai sul touchpad e, dopo aver inserito la password, la schermata di New York fu sostituita dalla home page di Google.
Ignorai la sua schiena che mi sfiorava il petto.
Ignorai il suo respiro accelerato.
Ignorai il profumo di fiori che mi solleticava le narici.
Ignorai i lunghi capelli biondi che mi accarezzavano il volto.
Intrappolai in un angolo del mio petto quelle sensazioni vecchie e nuove allo stesso tempo e l’aiutai a salvarsi il culo.
“Ecco, entra pure nella tua posta con questo.”
“Gr... grazie” balbettò. La vidi digitare il suo indirizzo di posta con mani tremanti, poi la password e infine inviò la mail.
Quando sullo schermo apparve la scritta ‘messaggio inviato’, Gioia si rianimò.
“Non ci credo” urlò, afferrandomi per un braccio.
Furono le sue ultime parole.
Prima che ci baciassimo.
Prima che l’uragano Gioia stravolgesse tutte le mie dannate regole.
In uno slancio di euforia (forse anche l’electric aveva la sua colpa) si alzò dalla sedia barcollante e mi abbracciò.
Mi colse di sorpresa.
Voltai il viso nell’istante in cui la sua bocca si stava per posare sulla mia guancia. Ci ritrovammo bocca a bocca.
Successe tutto in un secondo.
Non avevo mai fatto uso di droghe, ma quel bacio mi provocò la stessa sensazione che immaginavo potesse scatenare un tiro di coca.
Un bacio da cui ero già dipendente.
Avevo baciato diverse donne. Molte donne, in effetti. Avevo un ampio metro di paragone, ma questo bacio… Questo bacio, signori, credevo che non me lo sarei dimenticato molto presto.
Le nostre labbra si scontrarono e un gemito le sfuggì quando con la lingua spinsi per entrare, per farmi strada nella sua vita.
Le nostre bocche erano affamate, come le nostre mani. Ci toccavamo: capelli, viso, schiena. Frenetici, come a voler memorizzare sempre più dettagli dell’altro, il più possibile.
Fu lei a staccarsi per prima, ansimante. “Scusami, non volevo, giuro…”
Il suo corpo, il suo volto e i suoi occhi dicevano altro.
La spinsi contro il banco, intrappolandola tra il mio corpo e il legno che sapeva di birra stantia. Le presi il viso fra le mani e misi a tacere ogni suo dubbio con un altro bacio.
Tornai alle sue labbra e le feci scivolare dentro la lingua.
Quella volta fui più brutale, smanioso.
La strinsi forte a me, con una mano le tenevo ferma la nuca, con l’altra le accarezzavo il fianco. Nemmeno le sue mani restarono ferme. Mi infilò le dita fra i capelli e si strusciò contro di me.
Tutto il sangue mi fluì a sud, indurendomi come mai mi era capitato nella vita.
Stavo bruciando per un peperino biondo.
Non ero mai stato così.
Non era mai stato così. Per nessuna.
“Io sì…” sussurrai sulle sue labbra.
Mi staccai da lei solo per riprendere fiato e controllo. Eravamo in un karaoke stracolmo di Barcellona, non in una camera a ore di un hotel.
Abbassai la testa, le nostre fronti erano una contro l’altra. Non riuscivo a spiegarmi il fiato corto, il petto che si alzava e abbassava in modo convulso.
Ero certo solo del fatto che ne volevo ancora. Ero già diventato dipendente dai suoi baci come un drogato in astinenza.
Stavo per chinare il viso e baciarla di nuovo quando una voce ci interruppe e mi colpì in vari punti del corpo come un pugno ben assestato da un pugile.
“Ehi, Gioia!”
Suddetta Gioia si allontanò da me, barcollando all’indietro. Nei suoi occhi lessi panico e confusione, come se fosse stata colta in flagrante.
Si lisciò il vestito e si sistemò la scollatura.
Dovetti appoggiarmi al banco e passarmi le mani nei capelli per soffocare i miei istinti primordiali.
“Gioia, dove sei finita tutta la sera? Devi assolutamente venire per il finale, ti abbiamo messo in lista per la gara con la canzone di Notting Hill. Sei la prossima.”
La sua amica, decisamente brilla, mi mise a fuoco e mi studiò da cima a fondo.
“No! Ti prego, Bea, non farmi cantare» la supplicava Gioia.
“Non si discute» disse la predicatrice dell’aeroporto, continuando a squadrarmi. L’afferrò per un polso e la trascinò sul palco, tra le grida e l’incitamento ditutti.
I miei occhi caddero sul didietro di Gioia. Era davvero notevole.
Non era attraente. Era sexy.
E io provavo l’irrefrenabile impulso di correrle dietro.
Gioia si voltò solo una volta mentre affrontava la via della vergogna e mi chiese scusa con gli occhi.
Tesoro, ci rivedremo molto prima di quanto pensi.
Un sorriso pigro e lento mi curvò le labbra, mentre le lunghe ciocche bionde sparivano in lontananza, verso il palco.
Uragano Gioia non era esattamente il tipo di donna con cui mi ero sempre accompagnato. Dio, non sapevo cosa mi attirasse, in lei, ma qualcosa di vivo finalmente mi scorreva di nuovo nelle vene.
Con la schiena contro il bancone, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, decisi che avrei voluto saperne di più di quello scricciolo biondo che era piombato nella mia vita all’improvviso, come un uragano non previsto dagli studiosi.
La guardai un’ultima volta e con la bocca le mimai: “Amo i karaoke.”
Buone feste
Elisa xx
Leggere di loro è sempre una grande emozione. Grazie Eli❤
RispondiEliminaGrazie <3
EliminaStupendooooo è stato bello leggere l'incontro di Kelly e Gioia dalla parte di lui ...favolosooooo
RispondiEliminaBellissimo ❤️ Ho letto una montagna di libri ma torno sempre a questo mi piace tropo
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