Ogni favola nasconde dei fantasmi.
Riuscirò a lasciare andare il passato?
A volte la vita è scandita da alcune scelte.
Io ho passato la mia a pagarne le spese per l’abbandono di mio padre. Se n’è andato che avevo solo sette anni, mandando tutto in frantumi e lasciando dietro di sé strascichi e tante domande senza risposta.
Mi sono ripromessa di non permettere più a nessun uomo di interferire con la mia vita.
Sono diventata la cattiva ragazza, non sono una principessa da salvare e tantomeno ho voglia e tempo da perdere in relazioni serie. Le mie regole sono semplici: una notte, nessuna replica, nessun coinvolgimento.
Fino a quando non ho incontrato Filippo e le ho infrante tutte.
Ognuno ha una storia da raccontare, questa è la mia.
Riuscirò a lasciare andare il passato?
A volte la vita è scandita da alcune scelte.
Io ho passato la mia a pagarne le spese per l’abbandono di mio padre. Se n’è andato che avevo solo sette anni, mandando tutto in frantumi e lasciando dietro di sé strascichi e tante domande senza risposta.
Mi sono ripromessa di non permettere più a nessun uomo di interferire con la mia vita.
Sono diventata la cattiva ragazza, non sono una principessa da salvare e tantomeno ho voglia e tempo da perdere in relazioni serie. Le mie regole sono semplici: una notte, nessuna replica, nessun coinvolgimento.
Fino a quando non ho incontrato Filippo e le ho infrante tutte.
Ognuno ha una storia da raccontare, questa è la mia.
Passato
Beatrice
Contavo fino a cinque.
Era il lasso di tempo che trascorreva dallo
sbattere furioso della porta di casa al pianto convulso di mia madre. In quei
brevi cinque secondi papà riusciva a spezzarle il cuore in mille schegge
impazzite, come il bicchiere che immancabilmente cadeva a terra e dava il via
all’ennesima lite.
Ogni singola sera.
Percepivo
indistintamente le urla dei miei genitori, la mamma che gridava “Smettila!” e lui che le rispondeva
con quella brutta parola che inizia per p. Sapevo che era brutta, perché un
giorno, dopo scuola, mentre tornavamo a casa in auto, glielo chiesi.
“Mamma,
cosa vuol dire puttana?”
“Cosa?”
Si era voltata di scatto, il volto pallido, gli occhi che mi fissavano vacui e
le dita che stringevano forte il volante.
“Te
lo dice sempre il papà” risposi dal sedile posteriore.
Tornò
a guardare la strada. “Tesoro, non devi dire quella brutta parola.”
“Perché?”
piagnucolai.
“Beatrice…”
Usò il suo tono da rimprovero, e incontrai la sua espressione autorevole nello
specchietto retrovisore.
“Allora,
perché papà te la dice? Perché?”
Stavo
vivendo la fase dei perché a qualsiasi cosa. Ora so, a distanza di anni, che
quelle continue domande per lei erano un incubo come quello che viveva ogni
notte con mio padre.
Non
riuscì a darmi una risposta, la vidi deglutire a fatica e continuare a guardare
fissa la statale davanti a sé. “Non la devi dire. Mai” mormorò, con la voce
incrinata.
Quel
giorno, riflessa nello specchietto, vidi un’immagine triste e sconfitta di mia
madre. Da allora, per non rivedergliela, mi ripromisi di non pronunciare mai
più quella parola.
Continuarono
invece le liti tra i miei genitori.
Le
urla facevano vibrare le pareti sottili della mia camera e, appena udivo il
rumore del vetro sul pavimento, scendevo spaventata dal letto, con il mio
orsacchiotto Sorriso stretto tra le braccia. Aprivo l’armadio e mi nascondevo
dietro i vestiti di pizzo che odiavo tanto, ma che mamma insisteva per farmi
indossare per la messa della domenica. Mi sedevo rannicchiata in quel piccolo
spazio angusto, le gambe strette al petto e gli occhi chiusi, perfino
strizzati, sperando di far sparire quelle grida. Non duravano molto, ma
sembrava che non finissero mai.
Poi
sentivo la porta che sbatteva e allora nel buio contavo sottovoce fino a
cinque, guardando negli occhi il mio pupazzo di pezza.
Uno, due, tre, quattro, cinque…
I
singhiozzi convulsi di mia madre spezzavano il silenzio calato in casa, la
sentivo raccogliere i vetri e il suo pianto che dalla cucina si avvicinava alla
camera matrimoniale di fronte alla mia. Le pareti erano talmente sottili da
avvertire il materasso piegarsi sotto il suo peso, le molle scricchiolare e
ogni sua lacrima versata rimbombarmi nelle orecchie.
Me
ne stavo lì anche ore, al buio e seduta su una tavola di legno, aspettando e
sperando che i singulti di mia madre cessassero. Sempre senza piangere, per non
farle capire che ero sveglia.
Appena
i singhiozzi scemavano, mi alzavo e tornavo a letto, col labbro tremante.
Nascondevo la testa sotto il cuscino pur di non sentire il suo dolore e
strizzavo gli occhi per non permettere alle lacrime di averla vinta.
Fu
così per anni, fino a quel pomeriggio in cui aspettai mio padre alla fermata
del pullman.
Doveva
venire a prendermi come ogni giovedì, finito il rientro a scuola. Lo aspettai
per minuti, le mani strette alle cinghie della cartella, finché i minuti
divennero ore e del vecchio furgone Volkswagen non c’era traccia.
M’incamminai da sola a casa, sperando che mamma e papà non si arrabbiassero, ma
quel giorno faceva troppo freddo. Poi mi ritenevo grande abbastanza da fare
qualche metro a piedi senza correre alcun pericolo.
Alzai
il tappeto della porta d’entrata e presi la chiave di riserva. Quando entrai,
mi accorsi che non c’era nessuno. La mamma era al lavoro e papà si era
dimenticato di venire a prendermi come promesso.
Lasciai
lo zaino vicino al portaombrelli e andai in cucina, dove trovai un biglietto
sul tavolino.
É
strano come un piccolo pezzo di carta possa cambiarti l’esistenza.
Un
diploma, un curriculum, un biglietto aereo, un atto notarile, le carte del
divorzio… O il biglietto con la calligrafia veloce di mio padre.
Avevo
da poco imparato a leggere, quindi capii, quando lessi quella singola parola
scritta di getto, che non era nulla di buono. Lo lasciai lì e corsi in camera a
prendere Sorriso, mi nascosi nell’armadio e aspettai il ritorno di mia madre in
silenzio, nascosta dai vestiti appesi alle grucce.
Quella
sera non ci furono rumori di vetri rotti o la porta sbattuta violentemente.
Sentii
solo il tacchettio delle scarpe di mamma sul linoleum della cucina e poi contai
fino a cinque prima di sentire il suo cuore spezzarsi di nuovo.
Irreparabilmente.