Gioia crede di aver trovato l’amore della sua vita, ma quando ritorna da Londra scopre che il suo fidanzato Matteo, cantante di un gruppo rock che sembrava irraggiungibile, non solo l’ha tradita ma l’ha mollata con un misero foglio A4.
Con il cuore spezzato e un nuovo lavoro, Gioia intraprende una relazione privilegiata con il suo piumone, film alla tv e chili di gelato.
Fino a quando un incontro inaspettato a Barcellona cambia le sorti del suo destino.
Christian Kelly sembra uscito dalla copertina di una rivista di moda: bello, brillante, potente, sicuro di sé. L’intesa tra i due è immediata, finché Gioia non se lo ritrova davanti, nel suo ufficio, e scopre che dovrà lavorare a stretto contatto con lui per giorni.
Il mondo di Gioia sembra distante anni luce da quello di Mister Copertina. E poi lei ha smesso di credere nell’amore, nel principe azzurro sul cavallo bianco e nel ‘e vissero felici e contenti’.
Basta reprimere l’attrazione che prova ogni volta che lui le rivolge il suo irresistibile sorriso illegale e portare a termine l’incarico di lavoro.
Invece sarà il giovane rampollo newyorchese a dimostrarle che è proprio quando smetti di credere nell’amore, quando smetti di cercarlo, sarà lui a trovare te.
Con il cuore spezzato e un nuovo lavoro, Gioia intraprende una relazione privilegiata con il suo piumone, film alla tv e chili di gelato.
Fino a quando un incontro inaspettato a Barcellona cambia le sorti del suo destino.
Christian Kelly sembra uscito dalla copertina di una rivista di moda: bello, brillante, potente, sicuro di sé. L’intesa tra i due è immediata, finché Gioia non se lo ritrova davanti, nel suo ufficio, e scopre che dovrà lavorare a stretto contatto con lui per giorni.
Il mondo di Gioia sembra distante anni luce da quello di Mister Copertina. E poi lei ha smesso di credere nell’amore, nel principe azzurro sul cavallo bianco e nel ‘e vissero felici e contenti’.
Basta reprimere l’attrazione che prova ogni volta che lui le rivolge il suo irresistibile sorriso illegale e portare a termine l’incarico di lavoro.
Invece sarà il giovane rampollo newyorchese a dimostrarle che è proprio quando smetti di credere nell’amore, quando smetti di cercarlo, sarà lui a trovare te.
Prologo
La situazione mi era
sfuggita di mano.
L’ammasso inerme che
vedete disteso sul letto, con il volto spalmato contro il cuscino, le gambe
avvolte nel piumone come il tacchino del Ringraziamento nel tetrapak, be’, sono
io.
Ero sempre stata un
bradipo. Niente sport, primatista di salto in lungo sul divano, tessera della
palestra in bella mostra nel portafoglio. Insomma, campionessa mondiale
dell’ozio.
Ma da ben due
settimane, non che tenessi il conto, da bradipo ero diventata una larva.
Una larva che
strisciava per amore.
Sì, la situazione mi era
notevolmente sfuggita di mano. All’inizio pensavo che i colpi che sentivo
martellare nella mia testa fossero le proteste del mio cervello. Si
avvicinavano molto a un concerto hard rock degli AC/DC. Appena cercai di aprire
gli occhi, una fitta allucinante mi obbligò a chiuderli di nuovo. Ricordavo ben
poco della sera prima, solo un karaoke, io che cantavo a squarciagola una
canzone di Vasco Rossi e un biondino, neanche tanto carino, che mi alitava sul
viso.
Poi il nulla. Non
ricordavo più niente.
Molto
bene, Caputi!
Schiacciai di nuovo la
testa sotto il cuscino, con un gemito.
Questa non ero io.
Ero precisa, la regina
dell’ordine e della ragione, maniacale come un consumato serial killer.
La mia vita era
apparentemente perfetta. Sveglia puntata alle sette, rassegna stampa dei miei
social network, ispezione di Whatsapp e del suo profilo, pronta a leggere la
sentenza di quattro parole: ultimo
accesso alle ore. Mi sarei alzata e, dal bagno fino alla fermata della
metro sotto casa, mi sarei chiesta
con chi fosse stato online dopo
avermi dato la buonanotte. Mi sarei presentata al lavoro pimpante e innamorata, mentre dentro mi rodevo dai dubbi e dalla gelosia.
Ma da fidanzata in quel
di Londra, mi ero ritrovata tradita, single e in Italia.
Da qualche parte della casa
mi arrivò lo squillo del cellulare.
Spinsi via le lenzuola
con un lamento e molto lentamente mi alzai. Avevo la gola riarsa come il
deserto e il bisogno impellente di andare in bagno. Almeno gli shot della sera
prima mi avevano stordito ed ero crollata a letto senza avere il tempo e la
lucidità di rivivere in slow motion le ultime settimane, evitando di
addormentarmi in posizione fetale e annientata dal dolore.
Sì, le cose mi erano
sfuggite di mano da quel 23 dicembre, l’antivigilia di Natale agli arrivi del
Marco Polo di Venezia. Ero riuscita a far stare sei mesi di vita in due valigie
e una borsa, e avevo attraversato i controlli doganali di corsa, aspettando di
trovarmi lui agli arrivi a braccia aperte.
Non chiedevo una
dichiarazione d’amore su uno striscione, un sit-in di benvenuto con tanto di
palloncino a forma di cuore.
Mi sarebbe bastato lui.
Come era sempre stato.
Invece l’innominabile
barra stronzo non si era presentato col viso travolto dalla felicità. Mi trovai
davanti mio padre, con la faccia mortificata che si fissava le punte lucide
delle sue Clarks e la sua Panda 4x4 parcheggiata in zona carico/scarico.
Il cellullare trillò
ancora, insistentemente, strappandomi da quei ricordi dolorosi e vivi.
«Ho capito!»
bofonchiai. Avevo la bocca impastata e l’alito così pesante da poter stendere
qualcuno. Mi passai le mani tra i capelli ma si bloccarono nel groviglio di
nodi che erano. Potevo vedere il mascara colato sotto gli occhi e la matita
nera sbavata.
Già sentivo mia madre:
«Mai andare a letto truccate!».
Aveva ragione,
purtroppo. Alcol e trucco erano un binomio micidiale, e aggiungendo poi le
scarse ore di sonno avevo mandato a farsi benedire Il Manuale per avere pelli da copertina fino a cinquant’anni.
Scoordinata e
barcollante, cercai l’interruttore della luce e andai a sbattere con il mignolo
contro lo spigolo del letto.
Merda!
Mi mancò il respiro.
Dolorante e senza fiato
per l’impatto, accesi la luce e chiusi gli occhi. Ancora. Mi portai le mani
alle tempie e le strizzai. Il concerto nel mio cervello era nel clou della
serata.
Datemi
una pistola! Subito!
La mia stanza non era
in condizioni migliori. Sembrava un campo profughi.
Il vestito della sera
prima era arrotolato per terra vicino ai piedi del letto e intravedevo una
décolleté... sopra la scrivania? Cosa ci faceva lì?
La borsa era
completamente rovesciata sul pavimento. Trucchi, assorbenti, caramelle erano
sparsi ovunque e le calze aggrovigliate in fondo al letto.
Aggrottai la fronte.
Cosa avevo combinato ieri sera?
Zoppicando, presi gli
Ugg vicino all’armadio e me li infilai. Ignorai le temperature gelide
dell’appartamento e, in reggiseno, mutande e stivali col pelo, seguii il trillo
del telefonino.
Mi sentivo molto una
bagnina di Baywatch, solo che sulle mie cosce avevo tanta di quella cellulite
depositata che solo sparandomi Photoshop sulle chiappe poteva sparire. Per non
parlare della cartina geografica, meglio conosciuta dal pianeta femminile come
smagliature, che avevo stampato sull’interno coscia e sui fianchi. E non avevo
figli.
Almeno la biancheria
intima era coordinata, mi consolai.
Quando entrai in
cucina, sfregandomi le mani sulle braccia, ebbi un secondo shock.
Già troppi in una
mattinata.
Il mio telefonino era
sul banco della cucina ma non squillava, eppure io il trillo lo sentivo ancora.
Oh. Mio. Dio.
Chi c’era in casa con
me?
Non ricordavo nulla
della sera prima. Niente, nada.
E se mi ero portata a
casa quel biondino? Mi sarei presa a calci nel sedere da sola.
Un altro squillo mi
fece sussultare.
Dio! Ero in cucina,
mezza nuda, con il mio telefonino in mano e un altro che squillava in un’altra
stanza. E forse, dico forse, un ragazzo non identificato da qualche parte della
mia casa.
Con il cellulare acceso
in modalità emergenza, aprii il cassetto sotto il forno, impugnai il mattarello
e con passo felino avanzai guardinga verso il corridoio.
Accesi la luce e non
trovai nessuno, solo l’altra décolleté di vernice.
Mi diedi una sberla
sulla fronte. Doveva essere stata una nottata da fuochi d’artificio se non mi
ricordavo assolutamente nulla.
Scossi la testa senza
speranza e in punta di piedi mi diressi verso l’ultima stanza. Il bagno.
O
la va o la spacca, Gioia!
Mi appiattii lungo il
muro e trattenni il respiro, la mano già sulla maniglia, quando il martellare
insistente e improvviso sulla porta d’entrata mi fece sussultare.
Stupida,
stupida, stupida!
Non era lo squillo del
telefono, ma il campanello di casa.
«Gioia!» urlò una voce
femminile al di là del muro. Aggrottai la fronte. Non ero in vena di sentire il
suo tono autoritario. «Gioia, apri questa cazzo di porta!»
Imitai un saluto
militare e, incurante di essere coperta solo da qualche centimetro di stoffa,
il mattarello in una mano e il mignolo dolorante, aprii alla mia migliore amica
con un sorriso da Instagram. «Bea.»
«Gioia!» Sulla soglia
di casa, con il piumino rosso abbinato alle scarpe tacco dodici, i ricci biondi
indomabili e gli occhi color del mare che brillavano di rabbia, c’era la mia
migliore amica in tutta la sua incazzatura. Beatrice Turani.
«Bea, buongiorno anche
a te» dissi con spavalderia.
«Perché cazzo non
rispondi al cellulare? Sai quella cosa che si usa per rimanere in contatto con
gli amici? Stavo per chiamare una squadra di Swat per riuscire a entrare nel
tuo bunker.» Mi squadrò da cima a fondo, dalle doppie punte dei miei capelli
fino agli stivali col pelo, passando per il completino intimo.
Storse il naso. Io di
rimando incrociai le braccia al petto, pronta per la sua ramanzina. A quanto
pareva quella giornata era iniziata col piede sbagliato. Infatti non feci in
tempo a varcare la soglia della cucina che disse: «Cristo. Santo».
No, neanche Cristo e
tutti i santi del calendario avrebbero potuto aiutarmi.
Era sbigottita.
«Gioia!»
«Bea.»
«Smettila di farmi il
verso! Sei mezza nuda e... Oddio! Ho interrotto qualcosa?» Ecco, questa era
Bea, la dea della caccia. In confronto Diana era una zitella sfigata.
La stagione della
caccia per lei non chiudeva mai, aperta trecentosessantacinque giorni all’anno.
Collezionava uomini come io collezionavo sfere con la neve, era una femminista
convinta e sostenitrice accanita della scritta LIBERA sulla carta d’identità.
«Non c’è nessuno.»
Tirai un sospiro di sollievo per non essere andata a letto con quel cesso a due
gambe. Mi sarei marchiata la S di sfigata in fronte da sola.
Aprii le ante, seguita
da lei che camminava in punta di piedi per la cucina come se avesse paura di
contrarre l’ebola. In effetti la cucina era messa peggio della mia camera.
Pile di piatti da
lavare accatastati sul lavello, scatole di cereali e biscotti aperte sull’isola
che divideva la cucina dal piccolo salotto, post-it su post-it sparsi ovunque e
un odore di rancido che aleggiava nell’aria.
Bea prese un cartoccio
di latte aperto e lo lanciò nel lavandino, sfiorandolo con le dita come se
fosse una prova da consegnare ai RIS.
«Santo Dio, Gioia! I profughi stanno meglio di te.»
L’ignorai e mi lasciai
cadere sul divano, un cerchio alla testa oltre alle corna che il mio ex
fidanzato mi aveva regalato gentilmente come accessorio primavera estate. La
senti aggirarsi per la casa e con tono d’accusa mi disse: «Non puoi continuare
così. Posso capire che ti senti uno schifo, basta vederti, ma ti stai scavando
la fossa da sola. Gioia, ti voglio bene e sono tua amica, ma voglio proprio
vedere come farai a riemergere dal mare di merda in cui ti trovi».
Andava dritta al sodo,
per questo era la mia migliore amica insieme alle altre due Grazie.
Non potevo trovare
scusanti a cui appellarmi.
Sollevai a fatica un
pollice.
Avevo bisogno di un
caffè, subito!
Mi alzai e riuscii a
trovare una moka e del caffè ancora bevibile, afferrai l’ultima tazza pulita
rimasta e la posai sul bancone, mentre Beatrice perlustrava ancora la casa.
Ritornai sul divano e
chiusi di nuovo gli occhi, sperando che il martellare si affievolisse. Avevo
bisogno di silenzio, di un analgesico e di una pistola in caso di riserva, ma
Bea non era dello stesso avviso. Apriva e chiudeva il cesto dei rifiuti con dei
tonfi, smuoveva la pila di piatti nel lavandino e sbuffava ogni tre per due. Si
era trasformata in Cenerentola, lei che non sapeva neanche leggere la data di
scadenza sulle confezioni.
«Gioia...»
«Che c’è?» sbuffai.
«Sono giorni che non
rispondi al telefono. Immagino che tu non abbia risposto nemmeno alle
telefonate di tua madre.» In effetti in queste ultime settimane il mio livello
di sopportazione rasentava lo zero, figuriamoci se volevo sentire mia madre che
mi sparava i suoi soliti te lo avevo
detto, quindi avevo ignorato le sue telefonate minatorie.
«Non ho avuto tempo.»
«Stavi accumulando
merda in cui sprofondare?»
«Sei venuta a sparare
giudizi?»
Beatrice sospirò e
spense il caffè sul gas. «Siamo tutte preoccupate per te.» “Siamo” erano la
suddetta Beatrice, mia sorella Melissa e Ludovica Valenti. Le tre Grazie.
«Sono contagiosa»
borbottai sotto il cuscino. Purtroppo non esisteva sul mercato un cerotto da
mettere sul cuore per farlo smettere di sanguinare. Immaginai che Bea mi stesse
lanciando una delle sue occhiate da chi-vuoi- prendere-per-il-culo, così la
rassicurai. «Sto bene.»
Forse dirlo a voce alta
avrebbe convinto anche me.
«Prenderò una pastiglia
e tornerò come nuova.»
C’erano pastiglie per
tutto: mal d’auto, mal d’aereo, mal di stomaco, mal di testa. Ma per il mal
d’amore nessuno aveva ancora trovato la cura perfetta.
«Vestiti o ti beccherai
un malanno.»
Allungai la mano con
gli occhi sempre chiusi e mi infilai una vecchia felpa oversize, che
fortunatamente avevo dimenticato sul divano.
«Grazie.»
«Stai uno schifo!»
«Non credo che ti dirò
grazie per questo.»
«È la verità e il più
delle volte fa male. Fai schifo, puzzi e i capelli sembrano un nido di gazze.
Casa tua sembra finita sotto un raid aereo e stai trascurando noi che siamo la
tua famiglia. Tutto per cosa? Per colpa di quel cazzone di rockettaro.»
Il rockettaro era il
mio ex, l’innominabile, lo stronzo. Un metro e settantacinque per settanta
chili, un fisico né troppo magro né troppo palestrato. Era un bel tipo,
affascinante in jeans e maglietta, da strappamutande sul palco. Lui era la
causa del dolore che si era insinuato sotto la pelle fino alle ossa, sempre
presente come i chili di troppo sul girovita o come la cellulite sulle chiappe.
E la cellulite è una malattia dalla quale non si può guarire.
Non riuscivo a
scrollarmelo di dosso, il che lo rendeva anche fastidioso.
Mi tirai su a sedere e
presi la tazza che mi porgeva. «Passerà» mormorai nascondendo la mia
espressione dietro la tazza.
«Ti ha più chiamato?»
«Dopo la prima
settimana? No, silenzio radio. Su Whatsapp è sempre online, ma non intendo
essere io a cercarlo. Anzi, passami il telefono così cancello il numero.» E non
sarei caduta in tentazione come con Facebook. Avevo trascorso un intero sabato
sera in pigiama, io e il mio barattolo di gelato al doppio cioccolato, a
guardare tutte le sue foto. Mi ero ripromessa di dare un’occhiata veloce ai
suoi album ma tre ore dopo ero passata dall’anno 2007 al 2014.
Grazie, Mark
Zuckerberg! Grazie tante per aver scatenato il panico e aver mandato milioni di
italiani dall’analista con Facebook e la tua doppia spunta blu di Whatsapp!
Avevo scoperto che l’innominabile
aveva cancellato tutte le nostre foto, scomparse nel cestino del computer.
Aveva cancellato Gioia Caputi con un click e svuotato il cestino.
Stronzo!
Lui aveva intaccato
come un virus il mio database. La pragmatica, felice e con la piega quasi
sempre perfetta Gioia non esisteva più, sostituita dal fantasma di se stessa.
Mi facevo alitare sul collo dal primo biondino rimorchiato in un locale pieno
di feromoni maschili, per Dio! Mi sentivo come Miley Cyrus o Britney Spears
dopo aver detto addio alla ragazza acqua e sapone della Disney.
E il nocciolo della
questione stava proprio lì: la Disney.
Ci soggioga fin da
quando siamo in fasce con la storia del principe azzurro in sella al suo
cavallo bianco, dei rospi che diventano principi, delle bestie e dei mostri che
nascondono un cuore d’oro.
Io avevo smesso di
credere nel mio Mister Right. Sarei stata come Jennifer Aniston senza Brad
Pitt, Brenda senza Dylan. Avete visto com’è finita tra Tom Cruise e Katie
Holmes? A forza di saltare sul divano di Oprah erano saltati in tribunale.
«Non voglio nessun
uomo. Mai. Più.»
Bea scoppiò a ridere,
divertita. «Hai solo venticinque anni, sai con quanti coglioni avrai a che
fare? Uomini senza palle, traditori seriali, mammoni. E poi lo sappiamo da
generazioni con cosa ragionano gli uomini. Non vorrai mica diventare una
suora?»
Mi infilai un biscotto
in bocca. Dovevo asciugare l’alcol che danzava nel mio stomaco. «Ultimamente
hanno più vita sociale della mia.»
Annuì, riflettendoci
su. «Effettivamente...»
«Poi non ho bisogno di
un uomo.»
Avrei ritrovato il
controllo.
Lo avrei dimenticato.
Sarei rinata dalle mie
stesse ceneri.
Perché allora volevo
prendere tutte le sue foto e accendere un falò giù in giardino?
«Sai cosa devi fare?
Vendicarti!»
«Occhio per occhio?
Matura come idea.»
Mi liquidò con un gesto
della mano. «Stammi a sentire. Gli uomini il più delle volte non capiscono
cos’hanno perso fino a quando non vedono quella cosa in mano ad altri, tipo un
calciatore conteso al Fantacalcio. Mi segui?» Annuii, preoccupata per le sue
macchinazioni. Quando Bea aveva un piano, era meglio non farne parte. «Devi far
capire a quell’ammasso di cacca vagante cosa si sta perdendo avendoti lasciato.
Devi alzare le tue quotazioni sul mercato, ma come farlo se tu te ne stai
rinchiusa in questa casa? Quindi oggi goditi l’ultimo giorno di libertà, lascia
la forma del tuo sedere su questo divano, distruggiti di cibo spazzatura e
fatti una maratona di Sex and the City. Ma domani» disse puntandomi l’indice
contro con un tono che non ammetteva repliche «sarai in libertà vigilata sotto
la mia autorità. Tirerai il culo fuori da questa casa, avrai l’obbligo minimo
di cinque ore d’aria e ci faremo belle. Poi gliela sbatterai sotto il naso.»
Il piano non suonava
male.
Non era infallibile,
soprattutto avrei dovuto modificare l’ultima parte che prevedeva sbattergliela
sotto il naso, ma era pur sempre un piano.
Fino a due minuti fa
ero in coma etilico a letto.
Mi aveva tradito,
dovevo farmene una ragione.
Non potevo certo
starmene chiusa in casa a vita, agli arresti domiciliari (a parte la parentesi
col biondino) perché uno stronzo non era stato capace di rimanermi fedele per
sei mesi e tenerselo nelle mutande.
«Va bene» sospirai.
Beatrice alzò il pugno
vittoriosa, con aria trionfante. Si chinò in avanti e mi appoggiò le mani sulle
spalle, sorridendomi dolcemente. «E per la cronaca,» sussurrò sotto voce «non
pensare che ti aiuti a mettere a posto tutto questo casino, la tua casa è
portatrice sana di malattie. Sono la tua amica del cuore, ma il culo te-lo-pulisci-da-sola.»
Rimarcò la parte finale lentamente, in modo che recepissi il messaggio.
Roteai gli occhi,
esasperata. Troppo stanca per rispondere alzai il pollice in segno di okay e mi
tuffai di nuovo sul divano, la tv accesa su un film con Robert Downey Jr. Ma i
suoi bicipiti scolpiti non mi rubarono neanche un oh di apprezzamento. Nessun ormone impazzito.
Ero grave.
Riposa
in pace, Gioia Caputi.
Com’ero riuscita a
ridurmi così? No, non intendevo con i postumi di una sbronza colossale. Ma a
ridurmi così per un uomo, a non vedere uno shampoo per più di due giorni.
La mia vita
apparentemente perfetta era cambiata in un batter di ciglia.
Mi sentivo una
perdente.
Una disillusa.
Ma proprio quando
smetti di credere nell’amore, quando smetti di cercarlo, sarà lui a trovare te.